Aveva appoggiato il suo arco sulla porta di legno. E ora appoggiava su essa entrambe le mani. Come a sorreggerla. Il capo chino e gli occhi chiusi. Come a sorreggere la stanchezza di una notte insonne. Aprì le palpebre. E vedere i suoi piedi protetti dall’armatura ridestò il suo intento. Lentamente fece scendere la mano destra fino a sentire l’incurvatura dell’arco. Lo afferrò e contemporaneamente con l’altra abbassò la maniglia. La giornata era ventosa tanto da costringerlo a fare i primi passi tenendosi rinsaldata la kefiah.
Camminò sul terreno argilloso scrutando il percorso e poi chiudendo nuovamente gli occhi. Questa volta non per stanchezza, ma per provare a dilatare i sensi. Sapeva che il suo avversario si celava nell’antro più recondito della sua anima. E solo con estrema concentrazione avrebbe potuto avvertirne i sordidi movimenti.
Superò un gruppo di contadini intenti a lavorare quella terra striata di azzurro e grigio. Li lasciò abbagliati dallo scintillio della sua armatura e dalla meraviglia del suo inaspettato passaggio. Dove era diretto. Chi avrebbe dovuto combattere con arco e spada. Si chiesero scambiandosi sguardi muti.
Lo videro arrivare in cima alla collina. Fermarsi all’improvviso. Crollare in ginocchio. Abbandonando a mani aperte le sue armi. Con la testa reclinata. Come posseduta. Come tirata da una morsa invisibile. Lo videro resistere. E poi rialzarsi raccogliendo respiro e arco. Fare due giri su sé stesso prima di afferrare una freccia, tendere respiro e arco. Scoccare. Verso il cielo. Verso quello che a loro appariva nulla. E poi di nuovo inginocchiarsi sfinito. Sfiancato.
I contadini videro la freccia ritornare dal soffitto celeste e conficcarsi sul terreno. Solo il guerriero poteva osservare a pochi metri da sé la bestia trafitta. Il demone finalmente uscito dalla grotta della sua anima. Invisibile a tutti. Con le ali che sbatterono per l’ultima volta. Unendo vento al vento.