È uno di quei giorni… in cui indossare la tuta argentea, quella buttata lì in un angolo della stanza, che sembra pelle svuotata come dopo muta. Di dieci taglie più grande, con quelle enormi e colorate toppe sulle braccia che ricordano missioni passate. Destinazioni remote. Passati remoti.
È uno di quei giorni… in cui prendere fra le mani il casco ben lucidato, come appena svuotato dai pesci rossi, infilare la testa e poi fargli fare un mezzo giro intorno al collo fino a sentire quel piccolo click che indica l’incastro. Come quello dei lampioni in giardino.
È uno di quei giorni… in cui indossare gli scarponi, anch’essi argentei, anch’essi dalle proporzioni enormi. Poi camminare con lentezza e accortezza. Calma e cautela. Dovute ad animo e indumenti. Passi piccoli. Come dal casco sembrano piccoli i passanti. Arrivare al porticciolo, chinarsi, slegare la cima, un passo, poi l’altro e salire sulla propria barchetta. Appoggiare il proprio peso e provare quella piccola emozione, mista a timore, sentendola inclinarsi. Per poi ritrovare equilibrio. A braccia aperte. E poi sedersi. Guardare a destra la terra, già divenuta stretta nell’inquadratura. Stretta dalla quotidianità. Prendere l’estremità dei remi all’unisono. Immergerli. Sentire quella impercettibile resistenza della superficie liquida. Guardare per un attimo i cerchi concentrici. Come fossero gironi danteschi. O forse aureole. O piste per pensieri centometristi. Guardare nuovamente davanti. Portare le impugnature avanti e poi fletterle all’indietro. Come una flessione nel vento. Remare. Fluttuare nell’acqua increspata. Come fosse enorme impronta. Nel mare dell’identità.
È uno di quei giorni…in cui spaziare… verso una parte di me, lontana da me.