Oggi a Siena il cielo è grigio e l'aria umida come lo vidi e la respirai molti anni fa ad Auschwitz nel lontano 1996. 

Io e mia moglie eravamo arrivati a Monaco di Baviera  il 13 agosto dagli Stati Uniti, dove vivevamo dal 1976. All' aeroporto erano ad incontraci mio fratello e sua moglie che su un camper avevano viaggiato da Padova per una vacanza insieme a noi nella Polonia del Sud e dintorni.  Un viaggio di circa 1500 km in direzione Vienna con l'idea di incontrare il nostro nipotino, Jonathan, che aveva trascorso l'estate con la nonna polacca.  Volevamo evitare le strade principali per meglio capire il contesto geografico ed economico dei luoghi e dei  suoi abitanti.  Ero arrivato con un forte mal di schiena e le strade scelte erano in pessime condizioni: strette, sconnesse e piene di buche e per chilometri neppure asfaltate. Ricordo di aver sofferto molto durante il viaggio. Non so quale è la situazione oggi, ma ricordo di aver visto una campagna brulla con grandi pianure punteggiate da informi villaggi e periferie marcate da enormi palazzoni grigi con poche auto e molta gente nelle strade su carri e a piedi.

La nostra prima meta in Polonia era la visita al museo statale di Auschwitz - Birkenau, il più famigerato campo di concentramento e sterminio nazista. Arrivammo verso sera dopo due giorni di viaggio da Monaco.  Le indicazioni stradali erano state scarse. Ricordo piccoli cartelli in legno con scritte in vernice nera scolorita e nelle nostre fermate per chiedere direzioni agli abitanti sulla strada risposte incerte da bocche sdentate e facce tristi. Entrammo nel parcheggio erboso del museo di Auschwitz e il sole era già tramontato.

Da una palazzina a due piani in mattoni scuri si fece avanti una donna sulla cinquantina: fazzoletto in testa e stivali di gomma nera. Eravamo gli unici visitatori con un automezzo e forse anche gli unici in assoluto.

In un inglese approssimativo ci fece spostare un po' più lontano dalla palazzina che fungeva da punto di incontro per i visitatori e che forse era anche attrezzata con alcune camere dove passare la notte. Ci scambiammo poche parole e la notte sembrò piombarci addosso in un istante. Mangiammo qualcosa in camper quasi in silenzio e poi a dormire.  Il dolore alla schiena non mi aveva abbandonato e al mattino presto andai a parlare con la custode che ci aveva ricevuto la sera prima. Avevo bisogno di una doccia dopo il viaggio in aereo e due giorni di viaggio in camper. Fui fortunato, avevano una doccia per gli ospiti. Mi indicò una zona al piano terra, una specie di garage con una tenda di plastica nera sul fondo. Era la zona doccia. Uno spazio di due metri quadrati con il pavimento in cemento e tutto intorno questa tenda pesante nera e lucida alta tre metri. Non c'era illuminazione e sospeso al soffitto un grosso nappo in metallo. Ormai non potevo più rifiutare. Ho sempre sofferto di claustrofobia e l'idea di entrare in quel sacco buio nero mi faceva rabbrividire. Mi feci coraggio, e aprii i rubinetti a parete. L'acqua arrivò subito fortissima quasi pungente e molto calda. La mia paura si dissipò, ma il ricordo associato a ciò che vidi quel giorno mi è sempre tornato in mente ogni volta che faccio la doccia.

Un sole fioco accompagnò la nostra visita al campo. Non avevamo una guida e non credo ci fosse un servizio simile. Avevamo solo un opuscolo stampato ben fatto con un percorso suggerito marcato e molte fotografie che ci era stato dato al nostro arrivo. La doccia calda aveva sanato il mio mal di schiena e potei camminare per ore. Più che mi addentravo tra le baracche di mattoni rossastri e più mi rendevo conto della demoniaca organizzazione di sfruttamento, tortura e morte che era stata messo in piedi da una cricca di pazzi criminali. Le montagne di scarpe, valigie, occhiali, pennelli da barba, ciotole e protesi, mi lasciava confuso all'istante, ma poi collegavo quella visione alla galleria di quegli uomini e donne fotografati e incorniciati visti in precedenza in un’altra parte del campo. Tutti avevano lo stesso sguardo rassegnato, vuoto e senza speranza.  Allora mi montò una rabbia dentro mai provata in vita mia. Come è stato possibile che degli uomini abbiano fatto tutto questo e organizzato questa macchina di morte e costruito quello stanzone seminterrato dove venivano spinti tutti gli anziani e i bambini e i disabili con l'inganno di una doccia calda che altro non era che polvere di cianuro che uccideva bruciando i polmoni tra sofferenze inimmaginabili? Camminavamo ormai da più di due ore e in tutto quel tempo ci eravamo scambiati solo qualche parola a voce bassa come quando si parla in chiesa. Non eravamo in chiesa, e neppure in un cimitero, eravamo dentro la storia; le peggiori pagine di storia di tutti i tempi.

Mia moglie, Sally, lavorava a quel tempo in una casa di riposo per anziani ebrei, tra i quali c'erano alcuni sopravissuti ai campi di sterminio.  Suonava il flauto e pianoforte per loro e li trasportava con un piccolo autobus nei negozi, ristoranti e manifestazioni nelle vicinanze di Winston-Salem in North Carolina dove abitavamo.  Alcuni dei residenti sapendo che avremmo visitata Auschwitz, le chiesero di portare loro un ricordo.  Nel centro del campo dove veniva fatto l'appello ed eseguite le esecuzioni capitali per impiccagione, raccolse un piccolo sacchetto di terra e lo portammo in America.  

Nel pomeriggio ci spostammo al grande campo di sterminio di Birkenau che dista circa tre chilometri da quello di Auschwitz. Una spianata di quasi duecento ettari con oltre trecento baracche. Un inferno che accoglieva centomila internati con quattro forni crematori e camere a gas. Eravamo stanchi con lo stomaco chiuso in una morsa. Restammo fuori dall'ingresso camminando sopra i binari della ferrovia che trasportò da tutta l'Europa quel mare di uomini, donne e bambini della cui morte tutti, che in un modo e che in un altro, ne dobbiamo sentire la responsabilità e il peso.

Le immagini di quel giorno ci accompagnarono per il resto della nostra visita in Polonia. Qualcosa che non definirò mai come una vacanza.

Il giorno 14 agosto eravamo già di rientro in Italia e nei Balcani c'era la guerra. Al confine di ingresso in Croazia rimanemmo bloccati per oltre due ore. Mia moglie con il suo passaporto americano era considerata persona sospetta. Dopo una lunga attesa e varie conversazione tra agenti in una lingua che non capivamo fummo autorizzati ad attraversare la Croazia in fretta con tanto di vistoso timbro e permesso di solo transito incollato sul passaporto. Gli uomini non avevano ancora una volta ricordato e infatti, nel giro di poco tempo, in quella parte che era l'ex Jugoslavia, si sarebbero perpetrati uccisioni di massa, torture e campi di concentramento.

 

Gennaio 27-2022