Da molti anni mi arrampico sulle salite di Siena, le stesse strade dove ho camminato da bambino accompagnando a fare la spesa mia nonna Caterina. Allora era il volto antico di Remo il pizzicagnolo a salutare “il fiorentino” che era venuto in visita, oppure quello del Sor Bruno di via Baroncelli che si affacciava alla finestra dicendomi “Bentornato, Purgatorio!” (mi chiamava così ridendo sotto i baffi), oppure Linda la giornalaia che mi chiedeva in gran confidenza “Ma che ci torni a fare a Firenze?!”.
Deve essere stato l’affetto di queste persone a far crescere in me l’immagine di Siena come una città di sogno e di sorriso, e forse per questo ho sempre voglia di raccontarla. Ma forse “raccontarla” non è la parola giusta, in realtà quello che mi piace veramente è ascoltarla, sentire le storie che continuamente genera intorno a se stessa, una specie di narrazione mitica che ha come protagonisti cittadini estrosi, fantini corrotti, benefattori silenziosi, prodigiosi bevitori e festaioli impenitenti.
Per questo motivo da tempo mi siedo ad ascoltare le storie (o leggende?) che rimbalzano sui tavoli dei vinai o nelle osterie dure e pure - come quella del mio amico Pelo che è già un romanzo di per sé - e cerco di memorizzare tutti i particolari che vengono fuori dopo la tipica frase “Ma ti ricordi di…”.
I risultati di questo ascolto divertito e, a volte, commosso, sono decine di pagine fitte di appunti che vorrei raccogliere in un libro, ma, per quanto mi sforzi, non riesco mai a dire che il materiale è sufficiente e che posso cercare un editore perché storie nuove (o leggende nuove?) mi raggiungono ogni volta che mi siedo in un bar o che ordino gli spaghetti al sugo di cinta.
Siccome comincio a pensare che le storie si accumuleranno finchè campo e che il libro lo farà qualcun altro ho deciso di condividere con voi una delle prime che ho ascoltato, credo vent’anni fa, il narratore si chiamava Roberto P., e che a rileggerla mi fa pensare al titolo di una celebre commedia di Pirandello: “Sogno (ma forse no)”.
“ Il Giovedì Grasso era mio padre vestito da Charlot che insieme a due amici in maschera andava per le strade di Siena suonando e cantando. Ogni vinaio una sosta, una cantata e del rosso. Poi ricominciavano il giro inseguiti dai ragazzi e spiati da me che a sette anni ero apprendista di bottega dal barbiere Lusini. “Barba ben bagnata è mezza fatta“ mi ripeteva il principale mentre gli preparavo il cliente.
Spazzavo parecchio perché il negozio doveva essere sempre pulito, facevo il filo al rasoio e mettevo una pallina di legno in bocca ai clienti più anziani per tenere la pelle in tensione.
Quando ebbi tredici anni mi dettero la lama in mano e cominciai a fare la barba al babbo e allo zio che facevano gli agnelli sacrificali. Tutte le mattine il babbo si faceva affettare in silenzio, qualche bestemmia sommessa e poco più.
Siena non era piccola come oggi: era piccolissima, i vecchi in Società si raccomandavano – Oh Roberto! Non andare mai fori Porta Camollia perché c’è il lupo che ti mangia!-.
Io ho vissuto in trecento metri di strada e sono stato parecchio felice e, in realtà, Siena coincideva con la mia Contrada dove l’amicizia fioriva dalla povertà, dall’avere bisogno di tutti per tirare avanti. Non era mai miseria.
Alla cena della prova generale mangiavano in cinquanta e quattrocento stavano affacciati alle finestre o seduti sull’uscio di casa, e “a Palio vinto” ci si riuniva in Società per trovare il modo di pagare i partiti. “Io metto trecento lire” diceva uno, “Io ne posso mette’ cento” si aggiungeva un altro. “E io ci metto il bercio, perché soldi un ce n’ho!” strillava un terzo allargando le braccia. Andava bene così, era pacifico che i più poveri ci “mettessero il bercio”.
Oggi di quella Siena non è rimasto più niente; è proprio il nocciolo che è finito. Dov’è Beppe? O il Frittella? E Bocca Columelli che con Giuliano attaccava a cantare alle dieci di mattina? Sono bastati trent’anni e di quella città non è rimasto niente”.