Questa volta è differente.

Quando si fermò tutto, a fine inverno, la reazione fu quella che si ha “a botta calda”. Era la stupefatta constatazione di uno stato di eccezionalità, la sensazione di una catastrofe che aveva colpito collettivamente, inaspettatamente, ma, proprio per questo, essa era stata avvertita come un evento straordinario al quale rispondere rabbiosamente con un surplus di reattività adrenalinica.

Le manifestazioni che accompagnarono quella chiusura furono da manuale di semiologia: riscoperta (o invenzione: cambia poco) di solidarietà e di vicinalità, senso di unitarietà, caparbio rifiuto ad accettare di essere travolti. Sensazioni espresse con cori alle finestre, esposizione di bandiere e ostentazione di scritte ottimiste. Nel caso della nostra città, la cultura del Palio e della Contrada (complice l’approssimarsi dell’estate senza le due carriere e senza le feste titolari) fu convocata per creare un collante delle relazioni e dell’identità.

Nulla sarà più come prima, si disse. Vero. Dopo saremo tutti migliori di prima, si disse. Aspettate: magari mo’ me lo segno e poi se ne riparla.

Questa volta è differente.

Forse perché (inconsciamente, talvolta incoscientemente) ci avevamo davvero voluto credere che con l’estate il peggio fosse passato. Un po’ lo speravamo; un po’ lo abbiamo artatamente voluto sperare perché così si poteva giustificare la voglia di vacanza. Lo sapevamo, nel nostro profondo, che il virus non se n’era andato ma, con il caldo, si era solo (fisiologicamente) un po’ acquietato e che sarebbe ritornato a mordere duro in autunno, ma ognuno di noi ha negato – nel suo subconscio – l’evidenza e ha voluto credere a una favola.

Logico, quindi, che quando ci è stato palese quel che sapevamo perfettamente le reazioni non fossero quelle di mesi fa. Non si sono visti speranzosi cartelli multicolori auguranti il (non si capisce da che cosa deducibile) “andrà tutto bene”. Non si sono verificate solidarietà condominiali per sentirci uniti di fronte al nemico invisibile. I balconi tacciono e le Contrade sono, purtroppo, forzosamente azzittite con gli interruttori calati sull’ off e i portoni chiusi.

Quello che va in scena è uno spettacolo del tutto diverso, perché la seconda chiusura sta mettendo in ginocchio mezza economia a livello generale e, in una città come la nostra, con il turismo cancellato, sta facendo franare tutto l’indotto. Niente di strano che le varie categorie alzino la voce (dobbiamo riconoscere: fino a questo momento in maniera molto responsabile, corretta e civile) per segnalare il loro stato di difficoltà. Se stai per affogare, smanetti e urli chiedendo aiuto; che altro fai?

Lo sappiamo perfettamente: intorno (o ai margini) dell’evidenziazione delle criticità non mancano le strumentalizzazioni politiche, così come non mancano le strologazioni complottiste (alcune – lette sui social – di devastante comicità), né l’evocazione parameteorologica del “governo ladro” (a scelta, secondo i gusti, quello nazionale, quello locale o, per non rinunciare a niente, tutt’e due). Ma questi sono, tutto sommato, epifenomeni di secondaria importanza. Il fenomeno evidente è che, adesso, affrontiamo la nuova fase (e non facciamoci scenari troppo celestiali eh! la Toscana è a un soffio dal finire, con altre regioni, dalla zona gialla a quella arancione, con ciò che, di ancor più critico, questo comporterà) con più paura e con minore ottimismo. Soprattutto, con minor senso si unitarietà. E’ un fenomeno conosciutissimo in sociologia e nella storia: quando la situazione raggiunge un livello alto di criticità, il connettivo del tessuto sociale si liquefà e i piani della condivisione sghembano e si sfalsano. E’ questo il momento in cui chi governa la società (a qualsiasi livello: macro o micro) deve prendere in mano la situazione e mediare fra le istanze (inevitabilmente) corporative, raccordandole in un sistema di decompressione del conflitto e di bilanciata ricomposizione. E’ questo il momento in cui istituzioni e cittadini sono entrambi chiamati a far massa e a dar prova di responsabilità.

Certo, quando si vedono scene come quelle pubblicate sui social dello scorso sabato, con una Piazza del Campo che sembra la sera della prova, cascano le braccia. Non perché ci si debba tutti rinchiudere in casa a doppia mandata, ma perché quelle foto dimostrano che nemmeno il livello minimo di precauzione viene rispettato. E sgomentano le reazioni che tutti (tutti: anche chi scrive) abbiamo, declinate con l’invocazione a far fioccare sanzioni e multe. Sì, certo: è sacrosanto. Se i regolamenti ci sono, li si facciano rispettare, tanto più in questo campo e in questo momento, altrimenti sono grida manzoniane, e allora siamo autorizzati a considerare le istituzioni un teatrino dei pupi, in cui va in scena una rappresentazione che è tutta finzione. Il fatto è che, per quanto sia giusto e inevitabile postulare l’intervento di vigili, polizia, carabinieri, esercito, marines e anche quello della decima flotta interstellare di Vega-2, non si risolve niente così. Senza assumerci, ciascuno, in proprio, la responsabilità di gestire la crisi, sarà consolatorio scaricare la colpa su altri (Il Governo che è inetto, il Comune che inadatto, i vigili che non fanno multe, le malefiche congiunzioni astrali e via sacramentando da bar-sport), ma non ne verremo fuori.

Saremo tutti migliori, si era detto. Sarebbe il momento di dimostrarlo, anche se, chi scrive, ha qualche robusto dubbio in merito. Chi nasce sciabordito, sciabordito rimane, e chi agisce in modalità stronzo, stronzo rimane. Però, anche provarci, a smentire questa sfiducia, non sarebbe cosa da poco.