Ti appare così, all’improvviso, quell’arco che attraversa il cielo. Ti appare tra le macerie e le rovine, tra le spine dei rovi e ti lascia senza fiato. Un paesaggio incantato, che il tempo troppo velocemente sta consumando, se lo si lascia fare. E’ la pieve di San Martino in Grania (Asciano).
La storia affonda le radici prima dell’anno Mille e nella stirpe di Carlo Magno.
Già attestata in età longobarda l’area della pieve, conosciuta anche come “Ligrania”, esiste sicuramente in epoca carolingia. Nell’801, nelle Masse di Siena, infatti, il figlio di Carlo Magno, Pipino, fonda il monastero femminile dei SS. Abundio e Abundanzio e in un atto scrive che “la Pieve di Grania sarebbe stata aiutata e sostenuta in cambio di cibo e alloggi per le 12 suore dell’Ordine Benedettino” (del monastero sotto la sua protezione e tali informazioni ci vengono confermate anche da i suor Giuditta Luti che, alla fine del XVI secolo, redige le cronache del monastero stesso). Alla metà dell’ano 1000, poi, viene redatto, da alcuni frati dell’Abbazia di San Salvatore sul monte Amiata, in San Martino “dicto Grania” un contratto con il quale Guido figlio di Guido e Ildebrando figlio di Ranieri dei signori di Sarteano si impegnavano a non molestare i beni che monastero amiatino possedeva nel contado di Chiusi. E, per ospitare la promessa, la pieve ottiene un compenso di 100 soldi dall'abate di San salvatore. Inoltre la pieve di San Martino in Grania e il castello omonimo (che oggi non esiste più come gli altri numerosi edifici che la circondavano, di alcuni dei quali si possono leggere solo le “tracce”) vengono ricordati in varie bolle papali e, in particolare, da papa Clemente III che nll’aprile del 1198 conferma a Buono, vescovo di Siena, tutti gli antichi diritti che aveva sulla pieve di San Martino in Grania e sul castello. Una pieve importante, dunque, che si ingrandisce e arricchisce nei secoli al punto che, nel 1287, Siena nomina un podestà per amministrarla: Leoncino Squarcialupi. Ma potremmo andare avanti attraverso il tempo. Del resto il comunello di Grania e quello di San Martino (da qui il nome della pieve) vengono uniti alla comunità di Asciano con un decreto granducale solo nel 1777.
Oggi sotto quei rovi e quella chiesa senza tetto, dove l’arco attraversa il cielo come un arcobaleno anche nelle giornate più grigie, puoi solo riconoscere l’attacco del tetto a navata, vedere i resti delle colonne, dalle quali spunta ancora il colore azzurro, sormontate da pregiati capitelli di squisita fattura che altro non erano che i portali d’ingresso delle pareti laterali: quello a sinistra (entrando) portava alla Canonica, mentre quello a destra era un secondo ingresso.
E poi la preziosità degli arredi: nel 1786, padre Guglielmo della Valle, scrive che: “Nella Pieve di San Martino in Grania, diocesi di Siena, vi è l’altare del Rosario dipinto da Francesco Vanni; la Vergine, San Domenico sopra le nuvole, S. Caterina e S. Orsola con alcuni angioli che scherzano con le corone in mano, sono belli assai. Monsignor Zondadari già Arcivescovo di Siena, raccomandava ai Pievani di quella chiesa di custodire questa pittura, come un tesoro; e il vecchio Pievano presente assicurommi di questa premura, che fa onore alla memoria di quel prelato”.
L’arista è il celebre Francesco Vanni (Siena, 1563 – Siena, 26 ottobre 1610) e il quadro raffigurava la Madonna del Rosario con alcuni Santi. Era così importante che alla fine del XVI secolo nella parrocchia di San Martino in Grania nasce anche una compagnia laicale proprio sotto il titolo di “Maria Santissima del Rosario”. I suoi membri, uomini e donne, si dedicavano ad opere di carità: seppellivano i defunti, raccoglievano elemosine, dotavano per le ragazze da marito più povere e meritevoli. La Compagnia aveva nella pieve (a destra entrando) un suo altare del quale sono rimaste, oggi, poche labili tracce, con qualche pennellata di colore giallo.
E poi, ancora, un luogo così magico non poteva che avere una storia magica. Si racconta ancora oggi che un giorno un contadino molto povero incontrò un viandante nella strada sotto la pieve, si misero a parlare e quest’uomo vedendo il contadino tanto povero gli regalò cento monete d’oro. Il contadino nascose i soldi sotto il letame credendoli al sicuro ma la mattina non c’erano più perché la moglie lo aveva venduto e fatto portare via. Il contadino disperato si rimise in cammino e incontrò di nuovo l’uomo che, di nuovo, gli dette cento monete d’oro. Questa volta le nascose nella cenere del camino, ma ancora una volta la moglie, vendendo il carbone li dette via. Il contadino, sempre più disperato, nel bosco, ritrovò l’uomo che gli regalò del pesce. L’uomo allora lo scambiò con un agnello e prima di andare a dormire lo attaccò fuori della porta per farlo sgocciolare. Quella notte si scatenò una tempesta incredibile e al mattino il contadino vide arrivare a casa moltissimi cacciatori con altrettanti doni. Nella tempesta l’agnello si era illuminato ed aveva indicato loro la strada per la salvezza.
Sì, l’ho fatta lunga, ma si parla di un luogo magico, che la natura sta ricoprendo e quasi facendo scomparire, come il castello della Bella Addormentata nel Bosco ma, se ci crediamo, quei luoghi la loro magia possono ancora esercitarla e salvare anche noi. Anche nella notte più buia.
(Per scrivere questo articolo ho “rubato” tutto: le informazioni d’archivio ad Augusto Codogno, la leggenda a Gabriele Ruffoli, e l’esistenza della pieve a Luca Cresti che mi ha fatto scoprire luoghi incantati a pochi chilometri da Siena. Al prossimo “viaggio”, sempre con un thermos di caffè caldo nello zaino.)