Chissà quante volte ci siete passati nel vicolo intitolato al Beato Pier Pettinaio, lì, proprio davanti a Piazza Tolomei. Lì, dove sembra che avesse la sua bottega.
Si chiama, in realtà, Pietro da Campi, dove nasce (Campi è nel Chianti senese) intorno alla metà del XII secolo; il soprannome deriva, invece, dal suo mestiere: fabbrica pettini. Della sua vita privata sappiamo pochissimo: che era sposato, che abitava (forse) sul Poggio Malavolti (piazza Matteotti), che visse (forse) oltre cento anni. Il Beato Pier Pettinaio, nella sua umiltà, ha lasciato bensì numerose tracce della sua generosità: nei giorni di mercato, per non far cadere in rovina chi vendeva la sua stessa merce, si dice che arrivasse solo dopo i Vespri (anche se i clienti lo aspettavano ugualmente). Oppure che a Pisa, porto di mare e, quindi, emporio di traffici, dove effettuava larga parte della sua attività commerciale, non inseguisse facili ricchezze, anzi pare che comprasse anche materiale di cattiva qualità per poi buttare in Arno tutti i pettini mal riusciti affinché nessuno potesse più venderli per buoni truffando i compratori.
Rimasto solo donò tutti i suoi beni ai poveri e, fattosi Terziario francescano, fece grandi gesti di misericordia e aiuto verso poveri, bisognosi e malati, affiancato da un gruppo di compagni fatto di lavoratori urbani, uomini di legge, mercanti e artigiani. Insomma, oggi diremmo che si dedicarono, concretamente, a compiere opere di solidarietà.
Data la sua fama e la sua onestà lo stesso Comune di Siena gli affidò vari incarichi come scegliere detenuti ai quali concedere l'amnistia, distribuire le elemosine a poveri e religiosi, oppure vere opere di intermediazione politica: come il far rientrare in città i fuorusciti ghibellini espulsi dal governo guelfo ormai al potere.
Negli ultimi anni, gravemente malato, vive nel convento di San Francesco e istruisce soprattutto i novizi, fugandone anche dubbi e tentazioni.
Non lascia testimonianze dirette, al contrario è noto per i suoi lunghissimi silenzi e per questo spesso è raffigurato con un dito sulle labbra (viene conosciuto comunemente anche come "tecelano", ovvero santo del silenzio).
Muore il 5 dicembre 1289 e viene tumulato in San Francesco. Il Comune lo onora subito, tanto che il 19, il Consiglio Generale dà duecento libbre di danari senesi perché "super tumulum sancti Petri Petenarii venerabilis civis senensis " si costruisse un "sepulchrum nobile" con un altare e un ciborio. Purtroppo non esistono descrizioni sulla sua collocazione e, dopo l’incendio del 1655 che quasi distrusse la basilica, la sua tomba si perse per sempre.
La conferma canonica del culto, tuttavia, arriva solo 2 gennaio del 1802 da papa Pio VII che lo proclama ufficialmente Beato.
Due notazioni: l’efficacia della sua preghiera è stata esaltata anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio, canto XIII), dove fa dire alla nobildonna senese Sapìa Salvani: "Pace volli con Dio in su lo stremo de la mia vita; e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo, se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe".
Poi, ci sono due quadri poco noti (uno in Duomo ed uno alla Misericordia) intitolati la “Visione del Beato Pietro Pettinaio”, opera di Francesco Vanni. L’iconografia, tarda (siamo intorno alla metà del ‘600) racconta di quando il Pietro, trovando le porte della Cattedrale aperte come se lo aspettassero, entrò per pregare e gli apparvero alcuni angeli che spandevano cenere lungo la navata mentre Gesù vi lasciava orme ben visibili per andare a sedersi davanti all’altar maggiore dove c’era già la Madonna, mentre il Signore osservava dal cielo tra le nubi, simbolo dello Spirito Santo. Intanto entrava in Cattedrale anche un frate, con le stimmate ai piedi e il saio, il quale, unico fra tutti, riusciva a calcare fedelmente le orme lasciate da Cristo, fino ad essere accolto dalle due figure in trono sull’altar aaggiore: era Francesco d’Assisi.