Sono quarant’anni che è morto. Carlo Fontani, scrittore, poeta, montonaiolo innamorato della sua Contrada e del Palio, scomparve prematuramente (nemmeno ancora sessantenne) l’11 marzo del 1980, dopo una vita passata, per lavoro, avanti e indietro da Siena, ma con la sua città sempre tenacemente nel cuore.
Il primo distacco avviene appena a 16 anni, nel 1937, ed è un distacco importante: da via dei Servi fino in Africa (nelle colonie italiane, ad Asmara) dove il padre è stato distaccato alle Poste di quella città. Fontani lascia, così, l’Istituto Tecnico “Bandini”, dove seguiva i corsi di ragioneria, per conoscere una realtà del tutto nuova. Ad Asmara, frequenta l’istituto “Bottego”, dove si diploma, ed è in quel contesto che conosce e stringe amicizia con il suo coetaneo e quasi concittadino Arturo Mezzedimi (nato a Poggibonsi nel 1922, morto a Siena nel 2010, insignito del Mangia d’Oro nel 1965), che diventerà uno dei più celebri architetti italiani operanti in Africa e che progetterà alcuni fra i più importanti edifici nel Corno d’Africa, fra i quali il Municipio e l’Africa Hall di Addis Abeba.
Diplomato, si iscrive alla Bocconi, ma, nel frattempo, trova un importante e ben remunerato lavoro in una società mineraria di Asmara specializzata nell’estrazione dei diamanti.
Tuttavia la sua vita è destinata a mutare molto presto: quando scoppia la Guerra d’Africa, Carlo molla tutto e parte volontario, seguendo i suoi ideali che poi, anche nel dopoguerra, non avrebbe mai né ripudiato, né nascosto. Combatte per sei mesi, nella regione dei laghi, ai confini del Kenia e del Sudan, dove viene insignito della medaglia d’argento al valor militare. Poi cade prigioniero degli inglesi e cominciano, per lui, sei anni di internamento nei campi africani del Kenia, dell’Uganda e di Zanzibar.
Viene liberato solo nel 1946, e ritorna a Siena, dove, dal 1948, diventato giornalista pubblicista e collaboratore de “Il Tirreno” di Livorno, scrive sulla pagina senese de “La Nazione”, un impegno che manterrà continuativamente fino al 1976, anno in cui muore il caporedattore locale Giorgio Chiantini alla cui amicizia Fontani è legato.
La sua attività di giornalista lo porta a far parte del gruppo che, nel 1952, dà vita al “Campo di Siena”, un’esperienza che vede la luce per volontà di Mario Celli e di Silvio Gigli, ma intorno alla quale si concentrano le energie di intellettuali come Mario Verdone, Arrigo Pecchioli e Livio Bozzini. E, appunto di Carlo Fontani (che si firma spesso Rastignac). Nell’invenzione del Premio “Mangia”, accanto all’intuizione di Celli, c’è anche la mano di Fontani, e quando Celli comincia a non stare più bene è lui che si sobbarca, di fatto, la direzione del giornale. Fa parte, Fontani, di una corrente e di una cultura che di fronte alle trasformazioni della modernità che sta investendo Siena, rispondono facendo appello ai valori della tradizione e del conservatorismo, sia in campo politico sia nel campo dell’elaborazione di un’idea di città. Una visione che si confronta e si scontra dialetticamente con quella, di segno totalmente opposto, che in questi anni governa la città e il suo territorio, ma una visione che – condivisibile o no, allora come ora – aveva comunque come onesto e sincero punto di riferimento l’amore per Siena, per la sua Storia e per la sua memoria. La si può discutere (e senz’altro, chi vuole, rifiutare), ma non le si può negare – se vogliamo fare Storia e non retroattiva polemica – la dignità di “idea di città”, da analizzare e, comunque, da rispettare.
Il lavoro di Fontani (diventerà dirigente dell’INAIL) lo costringe a lasciare periodicamente Siena: va a Firenze, poi lo trasferiscono a Bologna, torna a Siena, ma nuovi incarichi di responsabilità lo proiettano a Roma, da dove, nel 1973, fa definitivamente ritorno nei luoghi in cui era nato.
La città che gli ha dato i natali è sempre in cima alla sua attenzione. Della sua Contrada è Priore fra il 1969 e il 1970, ma soprattutto è la sua produzione letteraria ad avere Siena e il mondo contradaiolo come fulcro: nel 1951 esce la serie di sonetti in vernacolo “Serenate”, alla quale faranno seguito “Siamo fatti così”, con le vignette di Tambus, “Chiacchiere sull’uscio”, “Getsemani e altri racconti” (poi rieditato con il titolo di “Racconti toscani” che si fregia dell’introduzione di uno studioso come Mario Bussagli: il volume è presente nella Biblioteca del Senato di Washington). Sulla miscellanea curata da Arrigo Pecchioli, “Il Palio”, pubblica il racconto-testimonianza “L’onorando priore”. La sua commedia in vernacolo “Trombicche” verrà rappresentata postuma ai Rinnovati nel 1980.
A questa produzione, tuttavia, Fontani aggiunge altre opere: di narrativa più “personale” e di “ricordo” (“Chebbedè. Storia di un ragazzo etiopico” e “Il Morino. Storia di un uomo semplice”) e di critica d’arte, come nel caso della monografia su “Ferdinando Manetti pittore”, che illustra l’opera di un artista nato a San Gimignano nel 1899 e morto a Beirut nel 1964, esponente niente affatto secondario della pittura italiana, autore di opere di tutto rilievo (soprattutto quelle degli anni Trenta: si veda una rappresentazione fra il cubista e il futurista di San Gimignano o “Anthropomorphic landscape”, pieno di citazioni dechirichiane, entrambi del 1931). Anche questo libro di Fontani è presente nella Biblioteca del Senato di Washington.
I suoi corsivi, pubblicati dal 1948 su “La Nazione” sono stati ripresentati in una raccolta nel 2005.
Una sua poesia “Elegia del vino” risultò vincitrice, nel 1962, nella gara radiofonica “I due campioni”, condotta da Silvio Gigli e, soprattutto, fu incisa su un 45 giri con la voce di Ubaldo Lay, l’attore che in quei tempi andava per la maggiore in televisione nelle vesti dell’infallibile Tenente Sheridan.
(Si ringrazia la famiglia Fontani e soprattutto la figlia Simonetta che ha messo a disposizione ricordi, testimonianze e foto che ci hanno permesso di ricordare ai senesi questo loro concittadino innamorato della sua città).