Era l’estate del 2005 e il commissario Luigi de Pedris era appena giunto a Siena da Torino, la città in cui era nato e cresciuto. Aveva chiesto il trasferimento per cercare di trovare la forza di reagire.
Da più di un anno conviveva con un dolore continuo, persistente e inconsolabile, che gli era piombato addosso quel maledetto pomeriggio del 6 marzo del 2004 quando la sua donna, l’agente scelto Laura Daccò, era stata freddata in corso Moncalieri durante un conflitto a fuoco. Quel giorno con Laura si spense pure la voglia di vivere di Luigi.
I primi tempi a Siena furono davvero terribili; quando non era in servizio, il tempo sembrava non passare mai. Quasi ogni notte De Pedris lasciava la sua tana, di via del Refe Nero, per vagare apparentemente senza meta per il centro della città. Un lungo girovagare che lo riportava sempre e comunque in Piazza del Campo. Il tumulto che sentiva dentro di sé, si placava momentaneamente solo alla vista della Torre del Mangia che si erge in tutta la sua mirabile e serafica bellezza: tanto imponente ed elegante, quanto leggiadra e maestosa.
Provava sollievo pure nel rimirare e tenere tra le dita i barberi: le 17 palline di legno dipinte con i colori delle contrade, con cui i senesi di tutte le età si divertono a giocare al Palio. Il nome barbero è proprio quello che viene dato ai cavalli che corrono in Piazza. E, così come avviene per le due carriere di luglio e agosto, vince chi arriva primo al termine della pista. Pista che può essere costruita ad hoc o scelta sfruttando le discese delle irte vie di Siena. Nella mente del commissario ai barberi si sostituivano le palline di plastica e ai colori delle contrade le foto dei corridori in bicicletta. Si rivedeva bambino insieme ai suoi amichetti di allora; era estate, si trovava sulla battigia di Lido di Camaiore, e teneva in mano la sua biglia preferita: quella raffigurante Francesco Moser con la maglia iridata di Campione del Mondo.
Ora a distanza di tanti anni, al posto della pistola d’ordinanza preferiva portarsi dietro un barbero, un po’ più grande di quello usato dai cittini e che aveva ribattezzato da tasca.
Ne alternava nel corso delle sue inchieste tre: la Civetta con il nero e rosso era un transfert per l’omicidio, il mistero e il sangue, e indicava l’inizio delle indagini; la Giraffa sempre rossa ma con il bianco che sostituisce il nero manifestava il punto di svolta, cioè il momento in cui si iniziava a intravedere la possibile soluzione; infine il Bruco con i suoi colori vivaci, il giallo e il verde, esprimeva e rivelava la soddisfazione del commissario per la risoluzione del caso. Oltre a questi ne aveva altri due per le occasioni speciali: il barbero del Drago che, per i colori natalizi, verde e rosso, teneva con sé nei giorni di Festa e quello a lui più caro, poiché regalatogli dall’amico Luciano Belletti detto Blét, in legno d’ulivo non colorato e quindi neutro, che custodiva in tasca nelle ore del Palio, a riprova della sua passione per tutta Siena.