Settembre 1970. Il giorno non lo ricordo, ma tra i primi del mese. Arrivai a Siena nel pomeriggio, in treno. Con la mia valigia, non legata con lo spago per la verità, mi affacciai su piazzale Rosselli, che allora era un luogo intimo, direi quasi appartato: una verde aiuola nel mezzo, la verde collinetta di fronte – non era consueto allora trovare tanto verde fuori da una stazione ferroviaria, oggi lo è ancor meno, infatti anche a Siena ci siamo allineati al cementizio profilo universale. Poche auto, qualche autobus (tram per i senesi, avrei appreso, anche se di rotaie nemmeno l’ombra). Per la prima volta in questa città, scelsi di non avventurarmi sui mezzi pubblici, montai in un taxi, una Fiat 124 se ben ricordo.
Tirai fuori il biglietto che mi aveva scritto papà (mica babbo) dopo la prenotazione telefonica da Taranto previa consultazione della guida Michelin – niente Internet e Google a quei tempi- e: “Hotel Continental, via dei Banchi di Sopra”, lessi scandendo. Che Banchi di Sopra fosse il Corso ancora non lo sapevo. Il lettore poi non si faccia fuorviare per la scelta dell’hotel oggi di un certo lusso, non ero un ragazzo ricco, allora la struttura era vetusta e declinante, avrebbe chiuso dopo qualche anno e chiusa sarebbe rimasta per decenni; dunque il prezzo era conveniente e la posizione centrale, come da cartina annessa alla già menzionata guida. Il taxi mi condusse per quella che sulle prime mi parve una città come tutte le altre, quartieri moderni, strade anonime… L’emozione esplose quando apparve San Domenico e poi su per via della Sapienza, fino al Corso. Cominciai subito a capire che ero in un mondo diverso, un luogo che aveva molto da dirmi, da spiegarmi e rivelarmi; cominciai a capire, e oggi ancora continuo, almeno ci provo. Perché Siena è un universo di segni, messaggi, suggestioni e sortilegi che nessuno potrà mai decifrare per intero, fino in fondo.
Non ricordo quanto mi trattenni per quella mia prima visita, pochi giorni comunque, sarei tornato in ottobre per l’inizio dei corsi universitari. Scopo del mio viaggio era appunto quello di iscrivermi alla facoltà di Giurisprudenza, nel bellissimo Rettorato in Banchi di Sotto e trovarmi una sistemazione, una camera. Allora la situazione non era ancora tragica come sarebbe diventata dopo solo pochi anni. Riuscii a trovare un posto letto accettabile in via di Calzoleria che impegnai per tutto l’anno accademico. Intanto girai e girai per strade, vicoli, androni, cortili e mi trattenni, specie la sera, in Piazza. Giovanissimo, solo, in una città diversa… ma Il Campo lo sentii subito come un porto franco, spazio aperto e pure di per sé familiare, familiare per tutti perché universale, caldo, accogliente. Può sembrare un paradosso, anzi lo è: ma la Piazza del Campo di allora, cuore storico di Siena e dei Senesi, scenario e destino di ogni Palio, con i suoi due ristoranti, i suoi due caffè e le tante botteghe “normali” che vi si affacciavano a vendere scarpe, mercerie, abiti, articoli per la casa, giocattoli… era molto più accogliente, direi senz’altro inclusiva, rispetto a quella attuale, che pure ormai è tutta organizzata a misura di turista, piena solo di ristoranti, pizzerie, bar o negozi di prodotti tipici. Stare in piazza, allora, significava immergersi nella Siena vera; oggi vuol dire restarne fuori, in una sorta di area protetta per, appunto, chi da fuori viene e fuori tornerà.
Sulle botteghe, su tutte le botteghe di Siena, mi voglio soffermare, perché il mio rapporto psicologico con esse costituisce un’esperienza storico-antropologica interessante. Passando per le vie del centro ebbi un’impressione come di ritardo sui tempi e, sì, anche di povertà. Mi spiego: venivo da Taranto, città industriale del sud, 200.000 mila abitanti, che in quel periodo conosceva una fase di grande sviluppo e benessere. Le acciaierie erano al massimo della loro potenza. Pochi saggi tarantini avvertirono a quel tempo che quel momentaneo benessere sarebbe stato poi pagato a caro prezzo. Ma in quel momento la città era ricca e attiva. La gente lavorava e aveva soldi, il commercio prosperava e ovunque si aprivano negozi di ogni genere con strutture di acciaio e cristallo e quelli già esistenti si rinnovavano con acciaio e cristallo, vetrine sfavillanti, piene di luci, i supermercati e i grandi magazzini erano tanti. Nel 1970 a Siena c’era l’Upim, nient’altro. E le botteghe, anche quelle del centro, erano di legno e di vetro: bellissime! Ma allora non lo sapevamo. Ora che la “Libreria Bassi” è nell’anima mia un pianto nascosto e mi viene il magone anche se solo penso alla “Casa della gomma” in Banchi di Sotto, mi rendo conto quanto e come il ritardo, la povertà fosse nel nostro cervello di “giovani moderni”, stravolti e avviliti dalla febbre consumistica di massa, che imponeva le false equivalenze nuovo=bello, vecchio=brutto, e non contemplava i concetti di antico, di autentico.
Siena ha difeso quella sua preziosa identità storica finché ha saputo e potuto. Poi negli anni ’80 le leggi del mercato e della avidità (che sono le stesse) l’hanno progressivamente omologata al modello imposto dai tempi. Ricordo che a metà anni ’90 proposi ad un importante rappresentante dei commercianti senesi di realizzare un libro fotografico sulle vecchie botteghe che a Siena ancora resistevano alla massificazione, rispose: “Perché dovremmo fare pubblicità ai pochi pigri dalla mentalità arretrata.” Sic. Ora sul Corso respiriamo solo il franchising.
Il Palio. Le contrade. Discorso difficile e complicato. Un giorno, forse, scriverò qualcosa sul rapporto con la Festa che possono avere i senesi per certificato di residenza e non di nascita. Perché la cosa è interessante. Per quanto mi riguarda, attraversai la fase dello studente fuori sede per il quale il Palio è una noia, che dà chiasso, confusione e disturba le fatiche dello studio (perché io studiavo). Poi, complice un favorevole calendario di esami che ritardò il mio ritorno a casa per le vacanze estive, andai in piazza a vederlo, per la prima volta. Luglio 1973. Lupa. Piano, piano qualcosa per me cominciò a cambiare; più che per la corsa, per il vivere la gente che mi stava intorno. Piano, piano tra quella gente entrai. Perché, per chi non è nato in questa città, il Palio non si insegna, non si impara, né si spiega. Il Palio si assorbe, se succede, e non è detto succeda. Come un’osmosi, che può nascere o no. Questa è la mia opinione ed è la mia esperienza.
Da un complesso di segni e circostanze, nacque il mio amore per la Torre. Lo vivo con intensità, anche se mai mi definirei un contradaiolo. In Salicotto ci capito quando capita. Ma ricordo che, quando cominciarono a parlarmi di Palio, una cosa mi colpì, il racconto di vecchi contradaioli che, per evitare la troppa emozione, durante la corsa si rifugiavano in un cinema, al chiuso, per non vedere e non sentire. Mi parve una storia un po’ fantasiosa. Ma oggi, se la Torre è in piazza, sono io l’anziano che sale nel suo studiolo in mansarda, mette le cuffie e la musica al massimo volume, per paura di soffrire o gioire, troppo.