In pochi conoscono la storia dell’Ordine di Sant’Antonio da Vienne, nato in Francia nella omonima città (da non confondere con la Vienna austriaca) agli inizi del XII° secolo, ma soprattutto in molti ignorano che fu presente anche a Siena.
La storia racconta che tra il 1195 e il 1120 due gentiluomini, Gastone e Gherardo (padre e figlio), riuscirono miracolosamente a guarire da una brutta malattia che allora prendeva il nome di “fuoco sacro” o “fuoco infernale” e per ringraziare il Divino costruirono una chiesa ed un ospedale nel luogo dove il tutto era accaduto: a San Desiderio della Motta, nella diocesi di Vienne.
Inizialmente gli spedalieri furono laici e il culto della chiesa fu affidato ai monaci benedettini, ma pochi anni dopo la comunità di Vienne era già diventata esclusivamente autonoma e totalmente religiosa. Gli appartenenti si facevano chiamare “frati spedalieri di S. Antonio”.
Nel 1218, appena finita di ingrandire la chiesa dedicata a S. Antonio, il papa Onorio III li riconobbe ufficialmente, ma fu solo nel 1297 che questi frati ebbero dignità di Ordine e si chiamarono, per volere di Bonifazio VIII “Canonici Regolari di S. Antonio da Vienne”, più brevemente “Antoniani”, sotto la Regola di S. Agostino. Da quel momento il loro “Maestro” poté qualificarsi con il titolo di “Abate Superiore”.
La loro fama di guaritori della malattia del “fuoco sacro” fu tanta e tale che le loro sedi si diffusero rapidamente in tutta Europa. Furono fondate chiese e ospedali e l’Ordine si organizzò in “Precettorie Generali o Maggiori”, e in “Precettorie Subalterne o Minori”, quest’ultime dipendenti a loro volta dalle prime.
Le sedi della nostra area geografica facevano parte della “Preceptorie de Tussiae” (Precettoria della Tuscia) ed intorno a metà del 1300 abbiamo la certezza della loro ubicazione in Firenze, Bolgheri, Campiglia, Firenzuola, Fivizzano, Lucca, Pescia, Pisa, Pistoia, Ponsacco, San Miniato (detto ai tempi S. Miniato al Tedesco, il cui ospedale di S. Antonio fu fabbricato nel 1352), Montevarchi, Suvereto e naturalmente Siena.
Il loro simbolo era una “Tau” (croce a “T”) azzurra contornata da uno o tre fuochi (provate entrambe le versioni), da non confondere con il simbolo dei Cavalieri di Altopascio, anch’essi presenti a Siena con almeno due ospedali e il cui stemma era molto simile (una “T” con il braccio verticale a punta contornato da una o tre conchiglie di San Jacopo).
Nella seconda metà del quindicesimo secolo cominciò la decadenza dell’Ordine Antoniano, fino a quando Papa Pio VI, con Bolla del primo gennaio 1776, impose che i beni rimasti ed i confratelli ancora operanti confluissero nel più florido Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, detto poi «di Malta».
Ma che cos’era il «fuoco sacro» e perché era così diffuso?
Detto anche «male degli ardenti» secondo le cronache del tempo era molto doloroso e causava nei contagiati delle piaghe (con conseguenti infezioni e necrosi), tanto gravi che, con il tempo, potevano portare anche alla perdita delle dita di mani e piedi o all’amputazione degli arti per «gangrena».
Gli «antoniani» divennero ben presto i più abili guaritori ed a loro ci si affidava come unici specialisti. Si trattava di quella stessa patologia che nel 1943 prenderà poi il nome di «Mattia di Ergot» o «Ergotismo».
Questo morbo poteva presentarsi in due forme: «Ergotismus convulsivus» caratterizzato da sintomi neuroconvulsivi di natura epilettica, o «Ergotismus gangraenosus» caratterizzato dalla gangrena e dalla mummificazione delle estremità degli arti. Ci0ò era dovuto alla dietilamide, oggi conosciuto come LSD ed è per questo che tra gli effetti di questa intossicazione, vi erano anche le allucinazioni.
Questi effetti portavano la gente a mettere in relazione la malattia con il demonio o con le forze maligne ed era logico quindi rivolgersi con maggiore propensione ai frati, i più affidabili sicuramente a guarire il corpo e l’anima.
Sarebbe bastato smettere di mangiare i derivati della segale per guarire completamente, ma questo lo si capì molti secoli dopo.
Il rimedio innovativo e più efficace adottato dagli antoniani fu l’utilizzo del grasso (grascia) del maiale, eccezionale emolliente per lenire le piaghe degli ammalati ed ecco spiegato perché ogni “precettoria” era dotata di un porcile.
Proprio il maiale infatti, diventerà nell’iconografia antica, il compagno prediletto di S. Antonio da Vienne, assieme ad altri due simboli: il fuoco e la campanellina, quest’ultima in genere legata ad un bastone.
Il maiale e la campanella entreranno più tardi (per osmosi) anche nell’iconografia di San Antonio Abate, protettore degli animali.
Il fuoco o la fiamma naturalmente, rimandavano alla malattia di cui sopra, mentre la campanella era il simbolo dell’elemosina.
Autorizzati perennemente da numerose bolle papali, i “frati antoniani” andavano spesso in cerca di elargizioni ed opere di carità agitando bastone e campanella per farsi riconoscere ed i loro maiali avevano il permesso di circolare liberamente in ogni luogo sotto la protezione delle autorità.
A tal proposito mi piace citarvi un documento tratto dal nostro Archivio di Stato e risalente al 26 giugno del 1488. Si tratta di una petizione presentata alla Balìa di Siena dalla Compagnia di Santa Maria in Portico di Fontegiusta (nella Contrada dell’Istrice), con la quale si chiese la proibizione per tutti i forestieri (extra mura cittadine), di ogni forma di richiesta di questue ed elemosine. Il Comune di Siena accolse favorevolmente la petizione, con la sola limitazione della confraternita di S. Antonio da Vienna, che ne doveva rimanere esclusa.
Abbiamo premesso all’inizio di questa ricerca, che gli “Antoniani” si erano stabiliti anche a Siena e vedremo a breve dove.
Scriveva Giovanni Antonio Pecci, nel secondo volume delle sue “Memorie storico-critiche della città di Siena”, che nel 1526 l’Esercito nemico si era fortificato “dopo il Portone dipinto di Camollia (Antiporto), e dal Monte, dopo il Prato, restava dall’Artiglieria della Città sicuramente guardato, occupava le Case, ivi contigue, la Chiesa di S. Antonio di Vienna, e il Convento delle Monache di S. Petronilla, e distendendosi fino a Fonte Becci….”.
Sempre secondo lo stesso Pecci, (stavolta dalla “Storia del vescovado della città di Siena”), la chiesa di Sant’Antonio di Siena sarebbe quella ora dedicata a San Bernardino all’Antiporto: “…perché se vogliamo intendere la Chiesa di Sant’Antonio, prossima alla porta della città, come credette l’Ughelli, è certezza che non prima del Decimoquarto Secolo (1300) fusse fabbricata, e intitolata di Sant’Antonio, e da poco tempo in qua mutato il suo titolo in San Bernardino, ed è quella, nella quale vi vennero ad abitare, e per qualche tempo vi dimorarono i Canonici di Sant’Antonio di Vienna.”
Per i senesi non è difficile individuare l’ex chiesa di S. Antonio da Vienne nell’attuale chiesa di San Bernardino (vedi foto), anche se alcuni studiosi lo hanno messo in dubbio. Ad esempio Ettore Romagnoli che nei suoi “Cenni storico-artistici di Siena e de’ suoi suburbj” sostenne essere quel fabbricato una semplice cappella eretta nel 1498 da Alessandro Mirabelli, poi incendiata nel 1554.
Sembra poi che in questa Cappella si insediassero nel 1685 i confratelli della Compagnia di S. Bernardino che avevano uffiziato “fino al 1590 all’Osservanza”. Quale sarà la verità?
Sempre secondo il Romagnoli gli Antoniani ed il loro ospedale furono sì ubicati nel borgo fuori Porta Camollia, ma accanto allo “spedale di S. Croce in Jerusalem eretto nel 1296 da Ser Torello di Baccelliere”: “Contiguo al sunnotato Spedale di S. Croce era il Convento di S. Antonio di Vienna dei Padri Armeni, edificato nel 1308”.
Qui però il Romagnoli incorre in un doppio errore in quanto l’ospedale di Santa Croce (in Jerusalem) ormai è stato accertato essere più a nord e vicino alla Porta di Camollia ed i Padri Armeni (detti anche “Armini” o “Herminorum” o frati “dalle lunghe barbe”), pur essendo presenti a Siena, furono un Ordine indipendente con tanto di una loro “Societas Herminorum”, non associabili all’Ordine di Vienne.
L’ipotesi più probabile al momento dunque, ricondurrebbe la precettoria degli antoniani di fronte alla chiesa di Santa Petronilla (vedi foto).