La forte presenza dei Templari in terra di Siena è oramai conclamata e, più passano gli anni e più ne prendiamo consapevolezza. Come anche altri ordini monastico-militari, questi “frati guerrieri”, avevano messo le radici nel nostro territorio con le loro “magioni”, le loro chiese e i loro ospedali e ciò anche per ragioni strategiche visto che la nostra provincia era attraversata interamente dalla francigena. Da nord a sud di essa troviamo nei grandi centri urbani medievali, segni e toponimi del loro passaggio e dei loro insediamenti. Così a San Gimignano, a Poggibonsi, a Siena, a Radicofani, ma anche a Frosini, nei pressi di Staggia e vicino a Buonconvento.
La storia di quest’Ordine, nato in Terrasanta all’alba della riconquista cristiana e cioè dopo la Prima Crociata del 1099, finisce definitivamente in Francia nel 1307 con la cattura del Gran Maestro e degli alti gradi da parte del Re Filippo (il bello).
Ancora oggetto di discussione fu il ruolo del Pontefice allora in carica che, non senza qualche resistenza, alla fine avallò la soppressione templare.
Tra i motivi principali che spinsero il Re francese contro quest’Ordine, c’era sicuramente quello economico in quanto i templari vantavano nei suoi confronti un credito immenso per via dei continui prestiti di denaro e la restituzione era ormai impossibile. Inoltre, questa milizia aveva raggiunto un’organizzazione, sia economica che militare, di notevolissimo spessore. Le sue proprietà immobiliari (magioni, castelli, fortezze) e terriere erano disseminate capillarmente in tutta Europa ed anche in oriente. L’Ordine inoltre, aveva proprio in Francia la propria sede principale ed a Parigi la cassaforte con l’oro e il denaro provenienti da tutte le provincie.
Per riuscire ad impossessarsene Filippo il Bello aveva bisogno di una motivazione valida che scavalcasse la protezione del Pontefice, al quale la milizia era fedelissima e per contro ne riceveva privilegi. Così, con un blitz improvviso, fece imprigionare tutto il vertice templare (compreso il Maestro De Molay) adducendo false accuse di eresia. Poi creò una apposita commissione formata da prelati a lui fedelissimi che, grazie all’uso della tortura, riuscirono ad estorcere false ammissioni e confessioni.
Il Papa inizialmente cercò di frenare tale azione, ma non ebbe la forza di contrastarla (anche perché ormai la sede papale era in Francia e non più a Roma) e quindi era di fatto ostaggio di Filippo il Bello.
I suoi sforzi però non si limitarono ai vari tentativi di pervenire ad un “perdono” e ad una sorta di sanatoria, ma riuscì ad imporre al re che i processi fossero tenuti da commissioni ecclesiastiche di sua espressione, certo che avrebbero mitigato l’estorsione della verità tramite tortura.
Nel regno francese tuttavia, dopo un lunghissimo tira e molla, Filippo il Bello riuscì nel 1314 a terminare la sua azione, bruciando sul Rogo il Maestro dell’Ordine (Jacques de Molay) e i suoi sottoposti.
Nel frattempo la forza di Clemente V si era via via affievolita ed era stato suo malgrado costretto alla promulgazione di alcune Bolle, la più famosa delle quali fu quella del 1312 (Vox in excelso), con la quale ordinò definitivamente che l’Ordine Templare venisse sciolto.
Se dunque il processo francese si concluse drammaticamente, non così fu nel territorio italiano dove le pressioni di Filippo il Bello non sortirono effetto.
Lo studio di questo grande conflitto di poteri (politici, religiosi ed economici) che interessò l’intera cristianità dal 1307 al 1314, può essere oggi studiato con maggiore profondità grazie anche al ritrovamento di alcuni documenti creduti irrimediabilmente persi; fra questi, oltre alla pergamena con l’inchiesta pontificia di Chinon che aiuta a comprendere certi aspetti della posizione papale, vi sono ben due testimonianze complete delle inchieste che avvennero in territorio italiano: una è relativa al procedimento di Cesena, mentre l’altra, costituita da un inventario di beni trovato da Renzo Caravita nell’archivio arcivescovile di Ravenna, appartiene al contesto dell’inchiesta presieduta da Rinaldo da Concorezzo. Da aggiungere però anche parziali documenti che portano alla conoscenza di almeno altri cinque procedimenti tra i quali quello di Firenze (svoltosi in piccola parte anche a Lucca) e che vide imputati i templari toscani.
In nessuno dei processi conosciuti però emergono nomi di templari di Siena o dintorni, fatta eccezione per uno di San Gimignano. Eppure di magioni (abbiamo già detto), in questa zona ce n’erano eccome!
Per fare un po' di luce occorrerebbe intanto esaminare la collocazione della nostra area nell’organizzazione geografica dei templari, capire cioè a quale delle provincie dell’Ordine appartenevamo e dove furono processati (se lo furono) i templari senesi.
Partiamo dalla collocazione di Siena. Agli inizi del XIV° secolo esistevano tre grandi aree in Italia o, come le chiamavano i Templari “Provincie”.
La Provincia di Lombardia (da “Langobardia maior” da non confondersi con l’attuale regione), che andava dalle provincie della Toscana del nord (Pisa, Lucca, Volterra, Firenze comprese) estendendosi in tutta l’Italia settentrionale, quindi Emilia Romagna, Veneto, Friuli e Lombardia.
La Provincia di Tuscia, al centro, corrispondente alla regione storica omonima (comprendente l’attuale alto Lazio, l’Umbria meridionale e il settore nord dell’odierna provincia di Roma), forse la meno densamente popolata di siti templari ma in ogni caso importante grazie alla vicinanza geografica con Roma.
La Provincia del Regnum Siciliae, che comprendeva tutto il meridione d’Italia, ivi compresa la Sicilia, e dove i precettori, specie sotto la dominazione angioina, avevano rivestito ruoli di primo piano nel quadro politico internazionale. A periodi alterni questa provincia fu a sua volta divisa in due: Apulia e Siciliae (accorpata a quest’ultima la Calabria).
Ma l’area di Siena??
Per la nostra area resta da capire se essa facesse effettivamente parte o meno della Provincia di Tuscia, in quanto in alcuni carteggi compare all’interno del “Patrimonium beati Petri in Tuscia”, come fosse una specie di entità autonoma. Alcune testimonianze di Templari ascoltati nel 1310 infatti parlano di un “magnus preceptor” in Tuscia e di un altro nel Patrimonio beati Petri in Tuscia, come fossero due realtà separate.
Comunque sia, i templari a Siena erano presenti e ben radicati; la loro primaria sede (fuori Porta Camollia) fu spostata a metà del XIII° secolo all’interno delle mura cittadine nella già presente chiesa di S. Pietro (poi detta S. Pietro alla Magione). Ebbero numerose proprietà e terreni a nord di Siena e a Marciano, tre torri in città, di cui almeno una adibita a carcere (per questa il Comune di Siena corrispondeva ai Templari un compenso) e una delle più antiche “Societas” con regolamenti più volte trattati e ratificati dagli organi comunali.
Ritornando al probabile processo ai templari senesi, pur non avendo la matematica certezza di quale provincia essi facessero parte, sappiamo che il Papa ordinò che gli interrogatori di coloro che avevano sede nella parte di Tuscia che non rientrava nella Diocesi di Pisa (quindi anche Siena) fossero seguiti dall’Arcivescovo di Pisa e dal Vescovo di Pistoia (“ad partes Tuscie extra Pisanam Diocesis”). La sede scelta per questo processo fu Firenze.
Dunque concludiamo che, se ci fossero stati dei templari di Siena inquisiti, qui sarebbero stati interrogati.
Del procedimento fiorentino sappiamo che gli imputati furono solo sei e tra questi il precettore della magione di S. Gimignano (tale frate Egidio) e quello della magione di S. Salvatore di Grosseto, ma nessun senese.
Ricordiamo con curiosità che, in concomitanza dell’arresto del precettore di S. Gimignano, la sua magione (S. Jacopo) venne letteralmente presa d’assalto da quel popolo (1309) che non sopportava le accuse di eresia mosse a templari.
Niente del genere accadde invece a Siena dove probabilmente i templari passarono indenni all’altro ordine cavalleresco (Cavalieri di S. Giovanni) al quale furono assegnate la quasi totalità delle sedi templari (anche la magione di S. Pietro).
Così del resto accadde in quasi tutta la penisola dove la lentezza (voluta) della Chiesa nell’istruire i processi contro i cavalieri del Tempio e la parziale clemenza nei loro confronti fu una buona strategia per dare tutto il tempo ai templari di fuggire via senza colpo ferire o di riciclarsi senza rischiare la vita.
(Nella foto: Chiesa di S. Pietro alla Magione)