La rivalità tra Dante Alighieri e Cecco Angiolieri è da sempre stata raccontata come uno scambio di scortesie tra i due poeti, quasi ad incarnare quell’inimicizia storica tra senesi e fiorentini, tra guelfi e ghibellini.
In realtà la vicenda è un po' diversa da come la raccontano gli appassionati di storia patria e i due grandi menestrelli di fine Duecento non si sfidarono poi più di tanto a suon di rime. O meglio, da quel poco di scritto che ci è arrivato, sembrerebbe che gli attacchi a suon di penna in realtà fossero tutti da una parte sola.
E comunque ci fu sicuramente anche amicizia tra di loro.
I due personaggi tra l’altro fecero parte della stessa fazione politica: quella guelfa.
Dante era un “guelfo bianco”, poi costretto all’esilio per le vicissitudini che videro a Firenze una drammatica spaccatura all’interno della stessa frangia.
Anche la famiglia Alighieri fu di parte guelfa da sempre e nel periodo in cui i due poeti erano giovani anche Siena, dopo la sconfitta di Colle Val d’Elsa del 1269, aveva ormai abbandonato definitivamente il partito ghibellino.
Fu così che i due ragazzi si ritrovarono a combattere fianco a fianco nella battaglia di Campaldino, nella piana di Poppi, nel giugno del 1289. Proprio in quel frangente ebbero modo di conoscersi, come del resto capita di fare nei momenti drammatici della vita. Dante fu uno dei fanti che con il pavese (scudo) piantato in terra sostenne il primo urto della cavalleria aretina rischiando veramente la vita, mentre Cecco faceva parte del contingente senese inviato in aiuto dei fiorentini sul campo di battaglia. Per loro fortuna i ghibellini vennero sconfitti duramente ed i morti guelfi furono pochi (circa trecento), mentre quelli aretini furono quasi duemila. Molti furono poi i nemici catturati e fatti prigionieri e tra questi alcune centinaia morirono nelle prigioni di Firenze. Se le cose fossero andate diversamente forse non avremmo mai conosciuto i sonetti dell’Angiolieri e la Divina Commedia di Dante.
Fatto sta che in alcune rime i due poeti ricordano e menzionano questa battaglia ed i suoi protagonisti. Dante lo fa più volte ricordando ad esempio la morte del comandante aretino Buonconte da Montefeltro (Purgatorio Canto V) e dando una soluzione all’enigma del suo corpo mai ritrovato dopo la battaglia, ma cita anche Corso Donati che a Campaldino fu a capo delle riserve pistoiesi di parte guelfa.
Anche Cecco in un sonetto composto tra il 1290 e il 1293 prende in giro la figura di un “marescalco” assai vanesio con le donzelle fiorentine. Si trattava di Amerigo di Narbona, capitano di guerra francese (parte guelfa) nella stessa battaglia e che il Compagni descrisse come «gentile uomo, giovane e bellissimo del corpo, ma non molto sperto in fatti d’arme», giudizio corrispondente al ritratto che ne fece burlescamente l’Angiolieri.
Certo non deve essere stato facile ritrovarsi improvvisamente in un campo di battaglia e Dante lo conferma descrivendo la grande paura che ebbe durante l’attacco aretino, dicendo chiaramente che pensava di morire.
Anche Cecco partecipò allo scontro sicuramente più per obbligo che per convinzione. A quei tempi tutti erano costretti, in caso di chiamata, a prendere le armi e partire se il Comune lo richiedeva e non ci si poteva tirare indietro.
L’Angiolieri tra l’altro non era nuovo a sottrarsi al proprio dovere ed esimersi dagli ordini militari. Lo aveva già fatto durante l’assedio del castello di Torri (1281), vicino a Roccastrada, quando si era allontanato più volte dal campo senza licenza ed era stato pesantemente multato. Gli episodi di intolleranza alle regole poi lo avevano portato a subire molti processi e condanne per rissa, per non aver rispettato il coprifuoco, per il ferimento di un certo Dino da Monteluco ecc..
Dunque, due caratteri che, seppur sensibili alla poesia e all’arte, erano difficilmente compatibili. Ci sono molti studi che hanno cercato di capire il motivo della rottura della loro amicizia, addossata addirittura alla diversa interpretazione dello stil novo o al diverso ruolo con il quale interpretavano la poetica, ma a giudicare dall’asprezza degli ultimi scritti di Cecco pare ci sia stato qualcosa di più.
Il terzo sonetto di Cecco a Dante (Dante Alghier, s’i’ so bon begolardo…) scritto tra il 1303 e il 1304, dimostra quanto oramai il limite fosse superato: “S’eo so’ fatto romano, e tu lombardo”
Purtroppo, la evidente rottura non trova un contraltare in Dante (le probabili risposte dell’Alighieri sono perdute) e quindi abbiamo solo la voce dell’uno senza il contraltare dell’altro, ma certo è che, pur non conoscendo quale fosse la scintilla iniziale non deve essere stata cosa da poco conto.