E vengono i giorni in cui ci dicono di ricordare i morti.

Come se la nostra memoria avesse un calendario obbligato da seguire.

Per fortuna quelli che ci hanno lasciato sono molto più spesso nei nostri pensieri e ci sostiene il fatto che non ci sia una separazione definitiva, proprio finché esiste il ricordo. Ma la fine di ottobre ha i colori giusti di un autunno in sofferenza e te ne accorgi quando lasci le case di Stalloreggi o di via Mattioli, te ne accorgi e ci rifletti. I luoghi dei morti sono delle implacabili macchine del tempo. E ci riportano indietro, oppure ci spingono alla speranza: allora sono come dei sogni. E loro ci aspettano tutti nella stessa posizione. Per questo da piccolo ero convinto che l’eternità fosse orizzontale. E forse lo sono ancora.

Oltrepassato il cancello del Laterino mi appaiono i cipressi: era tanto tempo che non passavo a salutarli.

Mi sento tornare bambino e, a poco a poco, senza accorgermene, affretto il passo, quasi fuggendo incontro a loro. Mi nasce nel cuore una tristezza vile.

Mi rivedo in quelle passeggiate al cimitero, passeggiate obbligate, con mamma e nonna, odiate e nel tempo rimpiante. C'è la stessa ombra odorosa di resina amara e mi rivedo bambino, laggiù, negli anni tristi della mia infanzia.

Ho paura di me bambino. Di me uomo ho invece confidenza. Conosco i miei segreti, la mia forza, le zone oscure e luminose del mio spirito, quel che c'è di già morto in me, di ancora vivo. So come deludermi. Ma di me bambino cosa conosco? Uno spettro dolente. Dentro ogni uomo c'è un bambino morto, un groviglio di paura e di istinti, di sentimenti corrotti. Chiudo gli occhi e mi rivedo ragazzo camminare per questi viali, sotto questi cipressi, Il sole riflette roseo il lastrico grigio delle tombe e le ombre lontane della Montagnola spandono un morbido sonno che cade dal cielo.

Sono vissuto per tanti anni prigioniero di questi cipressi, dentro questo orizzonte troppo breve per la mia lunghissima ansia.